Quando il mio ginecologo di fiducia mi disse che avrei dovuto rivolgermi a un centro per la cura della sterilità mi venne da piangere. Ok che in quel periodo le mie lacrime, facili per indole, erano facilissime, ma quello proprio non me lo aspettavo.
O forse sì. E lo temevo.
Perché bisognava arrivare lì, erano davvero finite le pillolette da provare, ero davvero io messa così male da dover andare da uno che cura le coppie sterili? E perché il dottore mi guarda e non mi dà risposte? Le risposte me le daranno al Centro, dice lui, quello in cui non voglio andare.
La verità è che io non voglio essere “sterile”. Io voglio solo essere una che non è rimasta incinta, non ancora. Una che ha qualche problema, ma non quello. Un problema cui comunque non volevo fosse dato un nome, ché finché non sai cos’è puoi far finta di ignorarlo.
Così, se la pancia non mi cresce meglio dar la colpa al caldo, oppure al freddo o allo stress, che da poco ho finito l’ennesimo trasloco.
Ma il dottore insiste per farmi prendere un appuntamento con il Centro.
Me lo segno nell’agenda, fra un dosaggio e l’altro, fra le cose da fare, anzi, fra quelle da accettare: “Telefonare centro xxxxx per appuntamento”.
E fra le cose da accettare ci metto pure me, con la mia sterilità, che non mi rende meno donna; che non mi rende meno moglie. Che non mi rende meno niente nei confronti della società.
Ma questo lo imparerò col tempo. Per ora l’ho segnato sull’agenda, che tutte le mie cose iniziano da lì.
